Gli allevamenti intensivi sono un fenomeno sempre più dilagante, le cui ripercussioni si riversano sugli animali e sull’inquinamento ambientale. Ma sono davvero così indispensabili?
Spazi ristretti e insalubri, in cui ogni animale ha solo 1 m quadrato a disposizione. Negli allevamenti intensivi, noti anche come industriali, gli animali si trovano condizioni di vita critiche, vivendo in luoghi soffocanti, attaccati a propri simili e lontano dalla luce naturale.
I momenti passati all’aria aperta diventano così un miraggio, sacrificando la vita degli animali, che si trovano in una situazione sempre più stressante e insoddisfacente. Tenuti lontani dai pericoli quotidiani che incontrerebbe stando nella natura, più la mancanza di attività fisica, non fa che indebolire il loro sistema immunitario.
Allevati in sovraffollamento, tutto questo non fa che aumentare il loro rischio di contrarre patologie, che spinge a far assumere agli animali sempre più medicinali. Inoltre per esempio i polli vengono allevati in modo da aumentarne il peso per incrementare il cibo prodotto. D’altronde questi animali passano la giornata, che è veramente da incubo, a mangiare alimenti a base di mais e soia.
Fonte di polemiche inarrestabili da parte degli animalisti, il fenomeno degli allevamenti intensi è ormai una costante. Ma non è sempre stato così.
La nascita degli allevamenti intensivi risale agli inizi del XX secolo. Più o meno è da circa 100 anni che questo modello di allevamento industriale domina la scena.
In passato questo tipo di allevamenti non esisteva. È nel 1923 che prende il via a seguito di un errore. L‘allevatrice Cecile Steel all’epoca aveva ordinato 50 pulcini per poi vedersene arrivare 500.
Non sapendo come fare, la Steel colloca gli animali in un piccolo fienile per poi nutrirli con mangime di mais e mano a mano li vende sul mercato, diventando nel tempo una magnate del pollo. Da allora il suo modello si è diffuso a macchia d’olio portando generazione dopo generazione a un’industria irrefrenabile.
Oltre alla sofferenza vissuta dagli animali, gli allevamenti intensivi hanno pesanti ripercussioni in termini di inquinamento ambientale. Secondo Greenpeace, il 17% delle emissioni a livello Ue sono derivanti dall’attività di questi allevamenti. Le strutture in cui sono tenuti gli animali consumano tantissimo, come in generale tutto il processo del loro allevamento tra lo smaltimento dei loro escrementi, il cibo a loro destinato e poi il loro trasporto per la produzione degli alimenti.
Ma come poter mettere un freno a questo fenomeno così dilagante? La risposta è nella nostra tavola: bisogna limitare il consumo di carne, considerando che secondo le stime all’essere umano non servono più di 400 gr di carne alla settimana. Un italiano in media ne consuma ben 1 kg e mezzo nell’arco di sette giorni, per non parlare di paesi come la Cina, in cui le cifre si alzano.
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