Il cibo rigenerativo è quello ottenuto dall’agricoltura rigenerativa, uno dei nuovi trend di sostenibilità. È davvero praticabile come soluzione?
Le mutazioni sui regimi alimentari sono in prima battuta una scelta individuale. Anche se si tratta di una scia con vistoso incremento, è difficile prevedere se si tratti di cavalcare l’onda salutista e sostenibile – come tutte le onde, passeggera – o di una reale presa di coscienza che possa invertire la rotta. A parte sparute, virtuose ed ancora troppo esigue iniziative, generalmente sotto forma di movimenti di piccole dimensioni, la visibilità di una supposta inversione di tendenza si nota principalmente dai consumi alimentari. Sono notevolmente aumentate le vendite di preparati a base vegetale, che a volte sostituiscono ed a volte integrano la dieta a base di carne.
Il kilometro zero è spesso trattato come un’utopia, specialmente da chi si approvvigiona principalmente nelle catene della grande distribuzione alimentare senza aver cognizione di regionalità e stagionalità. E così arriva il regenerative food, il cibo rigenerativo, una versione glocal del kilometro zero. Il è termine direttamente mutuato dall’agricoltura rigenerativa. Le parole chiave sono specificità del territorio e biodiversità. Nulla di nuovo. Sono le tecniche di agricoltura che più venivano utilizzate prima dell’avvento dell’agricoltura intensiva a fini commerciali, con l’introduzione massiccia di fertilizzanti.
Il cibo rigenerativo sostanzialmente consiste in prodotti alimentari derivati da un’agricoltura tradizionale che è meno impattante. C’è un fattore determinante da valutare. Anche se l’agricoltura produce minor Co2 rispetto all’allevamento, la sua versione intensiva provoca comunque disastri ambientali. E ad una maggior domanda sul mercato si risponde necessariamente con una maggior offerta. Che non è sostenibile al livello mondiale se non con pratiche agricole che depauperano il terreno ed utilizzano fertilizzanti. Ed allora ci si trova in un circolo vizioso.
L’agricoltura rigenerativa ha un occhio particolare verso la biodiversità, l’aratura solo se necessaria e la pacciamatura, ovvero la copertura del terreno per preservare le riserve idriche. La parola rigenerativo deriva dal fatto che con queste pratiche la natura si rigenera autonomamente, senza necessità di interventi umani invasivi e che inaridiscono il suolo. La conversione da un punto di vista ideologico può essere rapida, mentre i risultati reali richiedono dai 3 ai 5 anni per essere efficaci e sostenibili. E qui entrano in gioco le multinazionali, che seguono un trend verde sempre più richiesto per promuovere questo tipo di agricoltura.
La Danone ha siglato un accordo con la FAO nel 2019 per promuovere sistemi agroalimentari più sostenibili. E nel 2021 e 2021 l’hanno seguita anche Pepsi Co., Algida, Knorr, Nestlé, annunciando una riconversione in veste sostenibile dei loro prodotti con scadenza a breve o medio termine.
Il problema si pone quando l’abito verde è indossato da multinazionali spesso al centro di polemiche per politiche salariali o produzioni esternalizzate. Essere sostenibili non significa solo seguire il mercato in una sezione apposita. La sostenibilità è un concetto ad ampio raggio che prevede il rispetto dei diritti umani ed ambientali in tutte le fasi della produzione e distribuzione. È possibile che una grande multinazionale possa attaccarsi questa etichetta?
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