Tante, troppe morti evitabili in quel freddo 9 Ottobre del 1963: il disastro del Vajont è una ferita ancora aperta nel cuore dell’Italia, che difficilmente si rimarginerà nel futuro.
Siamo nell’Italia del boom economico, alla fine degli anni ’50. In questo periodo, la Penisola sta vivendo un momento di floridità economica e non mancano i fondi per la costruzione di infrastrutture volte a migliorare il territorio del Belpaese. Si pensa dunque di attuare un’opera ingegneristica di straordinaria portata, ovvero la diga del Vajont. Il cantiere viene aperto nel Gennaio 1957 e nel giro di un paio di anni, si poté inaugurare la struttura.
Lo scopo della costruzione era quello di convogliare diversi bacini presenti nella zona tra il Friuli Venezia Giulia ed il Veneto al fine di ricavare energia idroelettrica. L’azienda alla quale furono affidati i lavori, la SADE (Società Adriatica Di Elettricità) però non tenne conto di diversi fattori come ad esempio i rischi di franosità della zona o gli eventi sismici che spesso caratterizzavano quel territorio. Le prime prove di invaso di acqua del 1960 non andarono a buon fine e già questo avrebbe dovuto far scattare un campanello d’allarme. Ma così non fu.
Alla fine dell’estate del 1963, alcuni ricercatori rilevarono movimenti preoccupanti della montagna e perciò si decise di abbassare gradualmente l’altezza dell’invaso. Nel frattempo, l’ENEL, società che tutt’oggi ancor persiste, aveva rilevato una buon quota dell’infrastruttura collaborando con la SADE. L’8 Ottobre, su sollecito di alcuni tecnici, le aziende emanano un’ordinanza per la quale si segnala una possibile frana della montagna con conseguente riversamento d’acqua sui borghi sottostanti. Si prevedevano dunque problematiche ma non così ingenti come poi si manifestarono.
La sera successiva, alle 22,39, dalla costa del Monte Toc si staccò una frana lunga 2 chilometri, la quale portò con sé oltre 270 milioni di metri cubi di rocce, acqua e fango. In poco più di 20 secondi, la frana arrivò a valle generando un terremoto e riempiendo la diga. Essa tracimò ed una massa d’acqua gigantesca scese a valle verso i borghi abitati di Erto, Casso e Longarone, senza dimenticarci altri paesini del fondovalle veneto. Si stima che l’onda d’urto dovuto allo spostamento d’aria fosse addirittura il doppio dell’intensità generata dalla bomba atomica di Hiroshima. Appena saputa la notizia, una mole immensa tra Alpini, Vigili del Fuoco, militari dell’esercito ed altre forze competenti si recarono sul posto per portare assistenza. Ciò che si trovarono dinnanzi fu soltanto morte.
I dati ufficiali parlano di 1917 vittime ma non è possibile determinare con certezza il numero. Vennero infatti recuperati solamente 1500 cadaveri. Lo stesso discorso va fatto per i dispersi che dovrebbero ammontare all’incirca sui 1300. Per quanto riguarda i danni, le stime annunciano circa 900 miliardi di lire.
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