Qualche anno fa era stata prevista l’esplosione dei green jobs, ovvero di quei posti di lavoro all’interno dei comparti eco-energetici nazionali. Una crescita che – a causa di numerosi fattori, principalmente legati alla crisi economico finanziaria internazionale – non ha potuto realizzarsi concretamente, generando un ampio gap tra il volume di nuove assunzioni previste in ambito nordamericano (e non solo) e quanto invece riscontrabile nella realtà.
Negli soli Stati Uniti, ad esempio, il governo federale ha iniettato nell’economia circa 90 miliardi di dollari finalizzati a stimolare la generazione di posti di lavoro nei principali settori delle energie rinnovabili, con particolare attenzione al solare e all’eolico.
Nonostante questo imponente supporto finanziario (che rappresenta poco più di un decimo del pacchetto di sostegni finanziari predisposti dal governo Obama per il rilancio dell’economia), l’incremento dell’occupazione generato dalla green economy è stato piuttosto timido, con circa 224.500 posti di lavoro – in due anni – contro i 5 milioni che erano stati previsti nel medio termine.
E così, nelle scuole specializzate nei c.d. green jobs, le percentuali di coloro che, una volta laureati, trovano occupazione entro uno o due anni continuano a calare, assestandosi su forti minoranze, nell’attesa che la ripresa economica possa trainare (o, meglio, possa essere trainata) anche dall’eco-economia.
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