Raggiunto l’accordo per una nuova regolamentazione Ue in termini di sostenibilità e pratiche green. Niente più false promesse eco-friendly e finte aziende ambientaliste: ecco quando andrà in vigore la legge.
Negli ultimi anni i temi della sostenibilità e della salvaguardia degli ecosistemi stanno prendendo sempre più piede. In particolar modo ad essere attenti nei confronti del forte impatto ambientale che le pratiche dell’uomo stanno apportando al nostro pianeta sono soprattutto i giovani e i consumatori, i quali fanno molta più attenzione rispetto al passato. Una nuova consapevolezza verso gli acquisti e gli atteggiamenti responsabili nei confronti dell’ambiente hanno permesso anche alle aziende di doversi adeguare a questi ritmi di tutela nei confronti della natura.
Ciò è ben visibile nel campo della moda, dove la sostenibilità attraverso il riciclo, la compravendita di capi second hand, ovvero di seconda mano, e le varie pratiche di risparmio in termini economici ed ecologici stanno acquisendo sempre più valore. Le varie app e siti in cui è possibile scambiare vestiti e prodotti di seconda mano sono la testimonianza di questo cambio di tendenza. Ma è anche vero che non sempre le aziende che si professano eco-friendly rispettano davvero questa regola: vediamo la nuova regolamentazione dell’Unione Europea cosa dice in merito.
Se i consumatori e, in generale, i vari cittadini del mondo si prendono in carico in maniera individuale di attuare comportamenti più consapevoli e sempre più volti alla sostenibilità. le aziende commerciali non possono certo essere di meno. Spesso, però, vantarsi di essere a favore delle pratiche ambientali e di sostenere una moda responsabile si circoscrive, appunto, al solo vanto.
All’atto pratico, i vari slogan ambientalisti non trovano riscontro nei programmi aziendali che appaiono così sleali e incoerenti. Questa pratica in gergo viene definita come greenwashing, indicata come ‘ecologismo di facciata’, in cui spesso le aziende si professano in linea con le pratiche ecosostenibili ma in realtà dietro le quinte occultano i danni ambientali.
Le stesse etichette apposte, ad esempio, sui capi di abbigliamento in cui si riportano diciture sostenibili spesso non coincidono con le procedure aziendali, le quali in realtà agiscono in maniera contraria. Soltanto ad aprile di quest’anno l’ong ambientalista Greenpeace aveva, infatti, evidenziato come su 31 aziende analizzate soltanto due avessero riscontrato credibilità tra i valori ecosostenibili professati e le etichette riportate sui loro prodotti.
In particolare l’indagine è stata condotta su brand i quali fanno parte dell’iniziativa Detox, indetta dalla stessa associazione di Greenpeace volta a ridurre le emissioni di sostanze chimiche nei tessuti nell’industria tessile. A quanto pare, però, tra il dire e il fare c’è di mezzo il greenwashing.
Il rischio principale rilevato riguarda soprattutto l’incoerenza tra le etichette, i programmi sostenibili presentati dal marchio e.la risposta dei consumatori: più accresce l’entusiasmo degli acquirenti di queste prassi green, più le aziende sono portate a continuare nonostante non ci siano verifiche da parte di autorità terze o di meccanismi di tracciabilità.
La stessa cosa riguarda il riciclo degli abiti di tessuti non conformi agli standard sostenibili, il quale non solo non proviene da abiti usati ma spesso il poliestere tanto discriminato è in realtà utilizzato come sostanza miscelata al cotone: il policotone, dunque, viene definito come sinonimo di capo più ecologico, ma così non è. Per ovviare a queste problematiche e tante altre associate alle etichette non soltanto dei brand di moda ma di qualunque prodotto ingannevolmente assoggettato alle regole ecosostenibili, l’Unione Europea ha così deciso di agire in merito con una nuova normativa.
Il dibattito sul greenwashing e in generale sulle decisioni in merito alla trasparenza green da parte delle aziende è entrato in maniera definitiva nell’Europarlamento già lo scorso maggio, quando erano stati approvati gli emendamenti di una nuova regolamentazione Ue.
Ora la proposta di legge potrebbe vedere la sua piena approvazione dopo il mese di novembre, quando sia il Parlamento che il Consiglio si riuniranno per dare il via libera alla direttiva che potrebbe entrare in vigore ufficialmente nel 2026. Se anche venisse approvata il prossimo mese, infatti, ci saranno due anni di tempo per permettere a tutti gli Stati dell’Unione di recepire e mettere in atto il nuovo regolamento.
Nello specifico la nuova regolamentazione europea prevede il divieto alle aziende di utilizzare sulle etichette dei propri prodotti termini come “biodegradabile” “naturale” “ecologico” o “climaticamente neutro” se non accompagnato da prove concrete, così come quello di non limitare la durabilità di un prodotto se ci sono informazioni in merito alle sue caratteristiche e agli effetti sulla durabilità.
Stesso divieto vale per le diciture riguardanti le emissioni zero, le quali spesso sono indicate non in percentuale di rilascio del gas serra ma come del tutto assenti, quando in realtà andrebbe specificato l’impatto di riduzione sulle emissioni totali. Inoltre, nella nuova proposta di legge c’è anche il riferimento alla sostituzione o riparazione di un prodotto che non deve essere effettuata prima del tempo, o quando le etichette non “non provengono da certificazioni approvate o da schemi di sostenibilità stabiliti dalle autorità pubbliche”.
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