L’isola di plastica è un enorme agglomerato di rifiuti situata nel Pacifico. Per decenni la responsabilità è stata attribuita alle correnti dei fiumi. Uno studio dimostra che ancora l’attività umana ne ha una colpa
In questa vicenda, da qualunque punto di vista si voglia osservare la questione, la responsabilità è umana. L’isola di plastica, un’enorme chiatta collocata nell’Oceano Pacifico, è stata scoperta nella metà degli anni Ottanta del Novecento. Il nome isola di plastica, in inglese ‘Great Pacific garbage patch‘, ha un’estensione non precisa. Si stima tra i 700.000 km² fino a più di 10 milioni di km². Che in numeri significa poco, ma può essere più rappresentativo affermare che è una grandezza maggiore della penisola iberica. L’oceanografo americano Charles Moore ritiene che l’area potrebbe contenere fino a 100 milioni di tonnellate di detriti.
L’isola è principalmente invasa da rifiuti plastici, quali bottiglie, utensili monouso e scarti di imballaggi. Pleonastico sottolineare come questo enorme accumulo sia dannoso per l’ambiente in generale, ed in particolare per la flora e la fauna oceaniche. Negli anni, anzi, nei decenni, l’isola di plastica ha assunto connotazioni anche leggendarie, diventando simbolo dell’azione umana sull’ambiente. Ma ciò non è bastato ad implementare politiche reali per eliminare la plastica dai rifiuti o per riciclarla a dovere.
La responsabilità della formazione della gigante chiatta era imputata alle correnti fluviali ed oceaniche, che per moti continui, tendevano ad accumulare nello stesso punto i rifiuti. Uno studio portato avanti dall’associazione no profit Ocean Cleanup, con sede nei Paesi Bassi, ha rivelato che i conti non tornano.
L’associazione no profit ha inventato dei modi per ripulire gli oceani dalla plastica. Impegnata in prima persona nell’azione, oltre che sulla teoria, Ocean Cleanup, rimuovendo i rifiuti in campagne che vanno avanti dal 2018, ha iniziato ad ipotizzare che l’isola di plastica non fosse colpa delle correnti, bensì delle attività dei pescherecci. Nell’esame dei rifiuti nella zona dell’isola di plastica, circa metà del materiale raccolto erano reti da pesca, ed allora ha voluto studiare la questione più a fondo. Nel 2019 ha oltre 6mila oggetti e frammenti galleggianti (con un diametro di almeno 5 centimetri) per un totale di circa 547 chili di materiali plastici, e li ha portati in laboratorio per analizzarli.
Gli esaminatori hanno tentato una classificazione dei rifiuti, risalendo alle loro origini in base a codici, scritte, tipologia, lingua e perfino numeri di telefono trovati sui detriti. I risultati, che sono stati pubblicati su Scientific Report, hanno ribaltato la teoria dell’origine fluviale dell’isola di plastica. Una percentuale compresa tra il 75 e l’86% del totale deriva da pescherecci o altre attività di acquacoltura. La catalogazione attenta e cavillare dei rifiuti è stata fondamentale in tal senso, e l’ipotesi è stata confermata dai risultati.
La maggior parte della composizione dei rifiuti è originata da reti, contenitori per il gasolio, cordami di vario tipo, secchi e catini, contenitori di plastica per il pesce, accessori per l’acquacoltura dei molluschi e per la cattura dei crostacei e delle anguille, boe, indumenti da pescatore, galleggianti e quant’altro. Quindi se si tenta di imputare ancora una volta alla natura una forma di autosabotaggio, è uno sforzo inutile. L’isola di plastica, sia per produzione che per formazione, è interamente colpa dell’attività umana.
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