Uno dei problemi ancora poco affrontati per quello che riguarda l’ambiente e l’inquinamento sono le conseguenze del cosiddetto fast fashion raccontate ora in una docuserie in sei episodi che va proprio nei luoghi simbolo del problema
Magliette a pochi euro, abiti di lusso almeno apparentemente che però costano pochi soldi. Armadi pieni quindi di vestiti che alimentano la vanità di una parte del pianeta mentre c’è tutta un’altra parte che affoga negli scarti e si trova a distruggere il proprio ambiente per soddisfare la domanda crescente di fibre tessili. Le puntate in cui è suddiviso questo lungo documentario prodotto da Will Media in collaborazione con Sky e dal titolo iconico Junk – Armadi pieni, sono un viaggio nell’incubo nascosto dietro la moda a poco prezzo che ha inondato gli scaffali di oggetti che, dietro l’etichetta del prezzo concorrenziale, nascondono tanto dolore per il pianeta e il genere umano.
Gli episodi di cui è composta la serie sono disponibili su YouTube e ogni episodio si concentra su un aspetto del problema legato al fast fashion con un episodio che racconta anche una realtà vicinissima, l’Italia, per raccontare di una forma di inquinamento che va avanti da decenni e che ha avvelenato le falde acquifere di un’intera regione.
I sei episodi di cui si compone la docuserie co-prodotta da Will Media e Sky Italia vanno a guardare quello che c’è dietro sotto e intorno alla produzione di abiti e accessori per il settore che viene comunemente definito fast fashion. L’aggettivo fast rende bene l’idea di quanto questi oggetti non siano pensati per durare nel tempo quanto per essere una sorta di capriccio momentaneo che poi dopo un po’ può essere tranquillamente gettato nella pattumiera. Ma come ogni altro prodotto dell’industria, anche il fast fashion consuma risorse, genera inquinamento e problemi. Come sono evidenti i problemi esplosi in Cile dove improvvisamente un vero e proprio deserto si è popolato di tonnellate di vestiti usati.
Oppure la situazione del Ghana, un Paese che importa 15 milioni di capi usati ogni settimana. Questi vestiti per la maggior parte trovano una strada nei mercati locali ma che succede poi a quelli che non possono essere più rivenduti? Un’altra domanda se la pone il terzo episodio girato in Bangladesh uno dei maggiori produttori di abiti e in particolare uno degli epicentri del terremoto fast fashion. L’episodio dedicato al Bangladesh punta in particolare l’attenzione su quelle che sono le condizioni in cui lavorano gli operai delle fabbriche che poi producono, nei fatti, gli abiti che vengono venduti nel resto del mondo e che hanno prezzi stracciati anche perché, oltre al mancato rispetto dell’ambiente, c’è il mancato rispetto dei diritti dei lavoratori.
Il quarto episodio racconta dell’Indonesia e di un prodotto in particolare: la viscosa. Sefinita solitamente seta artificiale è una fibra semisintetica, il che significa che anche se in quantità minore è presente una componente non naturale e proprio la richiesta altissima di viscosa sta generando problemi alla tenuta degli ecosistemi di tutta l’Indonesia. Il quinto episodio va in India, un altro Paese che per soddisfare la richiesta crescente in maniera esponenziale del cotone per produrre tessuti e abiti sta stravolgendo il proprio ambiente e creando condizioni di vita e di lavoro insostenibili. L’ultimo episodio si concentra invece sul Veneto dove si trova uno dei maggiori produttori di PFAS. Il PFAS è una sostanza che viene utilizzata per rendere i tessuti idrorepellenti.
L’industria legata alla produzione del PFAS è stata di certo uno dei motori dell’economia veneta ma, si è scoperto più di recente, ha anche condannato all’avvelenamento la seconda falda acquifera d’Europa per estensione “per sempre” e allo stesso tempo ha probabilmente condannato migliaia di persone a una serie di patologie che vanno dal diabete al cancro.
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