L’attenzione all’inquinamento, al riscaldamento globale e all’eccessivo utilizzo di plastica è più che mai alle stelle. Grazie a un bombardamento mediatico total green e alla presenza di personaggi come la giovanissima Greta Thunberg, attivista ambientale, tutti noi siamo stati costretti a metterci la cosiddetta mano sulla coscienza.
L’industria del fashion, da sempre al centro di polemiche (sulle pellicce, per esempio), negli ultimi anni ha cercato di allinearsi a molti altri settori che hanno fatto della sostenibilità il loro punto di forza. Oltre alle critiche dovute all’utilizzo di tessuti di origine non naturale, pellicce animali e stoffe trattate chimicamente, l’industria del fashion è tra i settori più inquinanti del mondo, a causa del continuo utilizzo di macchinari e di forza lavoro per produrre sempre di più, sempre in meno tempo.
LEGGI ANCHE: Moda sostenibile, l’importanza dei controlli sulla filiera
Moda sostenibile e slow fashion
La sempre più diffusa moda sostenibile è, non a caso, componente diretta dello slow fashion, spesso descritto come l’opposto del fast fashion, ovvero la categoria a cui appartengono catene più inquinanti. Lo slow fashion si basa su valori di sostenibilità e rieducazione ambientale, come la riduzione degli sprechi.
La moda sostenibile sfida il paradigma della moda veloce abbattendo i confini esistenti tra il produttore e i compratori, rallentando il processo di produzione (al fine di concentrare quest’ultima sulla qualità più che sulla quantità) e puntando sulla motivazione dei lavoratori, spesso sfruttati. Non a caso questo nuovo concetto di fashion ha come obiettivo quello di potenziare tutti i membri dell’industria, di influenzarli a migliorare la ricerca nel campo sostenibile.
Le tecniche eco-friendly che funzionano davvero
Menzione speciale per l’upcycling, neologismo linguistico che deriva dalla fusione del verbo recycling (riciclare) e il suffisso up (che sta per migliorare). Consiste nell’utilizzare materiali, tessuti, e addirittura oggetti già posseduti per realizzare nuovi capi. Parola d’ordine: riutilizzo! Parte dell’upcycling è proprio il recycling, cioè il riciclo. Da sempre praticato a livello domestico, il riciclo è sempre più impiegato come antidoto ai problemi ambientali causati dal sistema moda.
Esempio luxury di questa pratica è il brand Stella McCartney: le collezioni knitwear realizzate dall’omonima stilista sono prodotte grazie ad una particolare rielaborazione di vecchie stoffe in cashmere, portata avanti da una piattaforma chiamata Re.Verso: qualità garantita, ambiente salvo.
L’azienda è anche esempio portante di un’altra rivoluzione sostenibile a cui molti brand stanno aderendo: l’utilizzo di tecniche produttive tradizionali. Le tecniche produttive sono da sempre un problema: altamente inquinanti, molto spesso dislocate. La moda sostenibile promette di risolvere questo problema localizzando i processi produttivi. Da Stella McCartney tutti i capi in seta sono fatti dell’innovativa Peace Silk: una seta etica che non uccide i bachi, ma lascia la farfalla uscire dal bozzolo.
Un altro passo in avanti per rendere l’industria della moda ancora più green è rappresentato dall’incorporazione di materie prime organiche e rinnovabili. I tessuti dovrebbero essere ricercati a livello locale e riciclati: le sete McCartney, ad esempio, provengono da fabbriche certificate di Como.
I materiali sostenibili
Ci sono diverse stoffe e materiali che vengono utilizzati per produrre capi che rispettano i principi della sostenibilità, al fine di abbassare l’inquinamento e gli sprechi effettuati ogni anno. Tra questi: canapa, seta, lana e lino, che sono biodegradabili e non contengono OGM; cashmere, la cui estrazione è meccanica e non necessita sostanze tossiche; bambù; cotone. Recentemente è stato anche scoperto un materiale chiamato tencel, che si ottiene dagli alberi di eucalipto ed è molto liscio ed elastico.
Utilizzando questi materiali si abbassa il consumo dell’acqua per la produzione, si eliminano del tutto pesticidi e fertilizzanti e si emette meno anidride carbonica nell’atmosfera: benefici non ininfluenti, visto che ogni anno circa 73 milioni di tonnellate di abiti vengono buttati via.
Elisabetta Franchi e Gucci, aziende attive sul campo
Probabilmente siamo ancora molto lontani da un’utopica industria fashion totalmente ecosostenibile, ma sono molte le industrie che stanno davvero facendo qualcosa sul campo: Elisabetta Franchi, ad esempio, ha attivato nel 2012 un programma che ha portato all’abolizione di pellicce, lana d’angora e piuma d’oca, sostituite con altri tessuti. Anche il gruppo Kering, proprietario del brand Gucci, è attivo sul campo.
Dal 2019 esiste Gucci Equilibrium, un portale dedicato a fornire aggiornamenti sulle pratiche sociali e ambientali: dalle liste delle materie prime, al reimpiego degli scarti, passando per un ampio spazio dedicato alla tematica fur-free.
In un mondo in cui la consapevolezza dei danni sociali causati dall’inquinamento cresce anche in settori più “snob” come quello del luxury, crediamo che la moda sostenibile possa davvero avere un futuro concreto.