La moda fast fashion torna a catalizzare l’attenzione: un’indagine a tema greenwashing ha fatto parlare in tutto il mondo. Scopriamo nel dettaglio cosa è venuto a galla.
La moda è la seconda industria più inquinante a livello globale. Con i suoi effetti lede l’ambiente sempre più minato dall’agire insostenibile dell’uomo nonché incide sui lavoratori, sfruttati nelle fabbriche delocalizzate nei Paesi Terzi e costretti a condizioni di lavoro inique e a salari bassissimi.
Altra problematica è dettata dalla mole immensa di rifiuti generata dal settore tessile: ogni anno viene immessa una quantità gigantesca di capi sul mercato. Di quei vestiti solo pochi vengono davvero sfruttati e una minima parte viene riciclata. Il risultato sono veri e propri cimiteri di abiti sparsi per il globo che non fanno che generare tantissimo inquinamento.
Ad alimentare tutto questo è che il fast fashion, modello produttivo imperante nell’abbigliamento incentrato sullo sfornare nuove collezioni a ritmi serrati create con materiali a basso impatto ambientale e con processi produttivi insostenibili con l’obiettivo di risparmiare quanto più possibile allo scopo di vendere i vestiti a prezzi bassissimi.
Il motore di questo pericoloso fenomeno sono le catene low cost dove spesso molti di noi fanno shopping. Proprio in merito ad alcuni grandi del fast fashion, tra i più famosi, spunta un risvolto per nulla rincuorante. Andiamo a scoprire di cosa si tratta.
Sono circa 92 milioni le tonnellate di rifiuti generati dal settore dell’abbigliamento ogni anno a livello globale. Un dato impressionante che fa capire quanto la moda abbia un gigantesco peso sull’inquinamento ambientale. Proprio per questo scende in campo la moda sostenibile, il cui scopo è invertire la rotta e ridurre l’impatto dell’abbigliamento.
Oltre a produrre in modo più sostenibile, i promotori del green fashion spingono al riciclo corretto dei capi, seguendo la strada dell’economia circolare. In questa direzione negli anni anche i marchi low cost hanno ideato delle iniziative per stimolare il riutilizzo dei capi.
Tra questi per esempio ci sono H&M e Primark che hanno dato vita a progetti che portando i consumatori a consegnare i loro capi nei punti vendita, in cambio di sconti e buoni. Ma ora spunta una forte preoccupazione: questi progetti nel segno del riciclo permettono davvero di evitare che i vestiti finiscano nella discarica? Oppure siamo davanti solo a operazioni di greenwashing?
A tema fast fashion e brand low cost è stato messo in atto uno studio importante e dai risvolti inquietanti. Realizzata dalla Ong Changing Markets Foundation, nell’ambito della ricerca è stato usato il sistema AirTag allo scopo di tracciare alcuni dei capi donati a negozio come H&M, Zara, Primark e Uniqlo nelle zone del Regno Unito, della Francia, del Belgio e della Germania.
L’indagine è andata in scena dal 2022 al 2023, per un totale di 11 mesi, affiancando il lavoro con un software dedicati al monitoraggio. Malgrado i marchi millantino di riciclare i capi consegnati è stato scoperto l’impensabile: circa 3/4 dei capi non sono stati riutilizzati, ma sono stati distrutti oppure abbandonati in discariche in Paesi del Terzo mondo. Quindi i progetti dei brand low cost che stimolano il riciclo sarebbero in realtà solo greenwashing.
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