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Non siamo solo quello che mangiamo. Nella nostra società, dove i rapporti di potere che schiacciano il più debole sono all’ordine del giorno, siamo anche quello che ci mettiamo addosso, i vestiti che utilizziamo nella nostra quotidianità. I tragici eventi di questi giorni hanno portato sotto i riflettori una triste realtà che non accade in una remota regione dell’India ma a Prato, in Toscana, nella “civilizzata e democratica Europa”. 7 operai sono morti all’interno di un capannone, in quella che viene definita la “Chinatown della moda”. Strutture fatiscenti, sedi di un lavoro disumano: alcune testimonianze parlano di 18 ore al giorno per paghe misere, poco più di un euro all’ora, senza un giorno di riposo. Spesso questi edifici sono anche la casa di clandestini, portati in Italia con il sogno di migliorare la loro condizione umana e che si ritrovano a vivere senza le condizioni minime di sicurezza, in veri e propri “loculi”, con tutta la loro famiglia. Abbiamo intervistato Deborah Lucchetti, referente nazionale della Clean Clothes Campaign, che in italiano diventa Abiti Puliti, per capire un po’ meglio questa nuova schiavitù e soprattutto come non finanziarla, grazie a un consumo consapevole.
Pochi giorni fa hanno perso la vita 7 persone, ma basta andare indietro con la memoria al 24 novembre 2012 in Bangladesh, alla Tazreen Fashions di Dhaka, per avere di fronte a noi un’altra storia di morte e sfruttamento: 112 persone intrappolate dopo lo scoppio di un incendio. Ovunque lo stesso sistema di sfruttamento: lavoro nero e sottopagato all’origine e poi prezzo gonfiato a dismisura nell’ultimo passaggio della vendita al dettaglio senza lasciare nulla, se non le briciole, a chi crea i capi d’abbigliamento.
Qual è la domanda che si deve porre un consumatore consapevole quando entra in un negozio? Quali sono i suoi strumenti?
«Non è facile, non voglio dare illusioni – ci racconta Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della campagna ‘Abiti Puliti’ – Bisogna partire prima di tutto da un approccio critico al consumo: siamo soggetti emotivi, ovvero quando entriamo in un negozio, vediamo qualcosa che ci piace e lo compriamo. Dobbiamo cambiare questo modo di pensare: dobbiamo prendere informazioni su quello che compriamo, guardare dov’è stato prodotto, la sua filiera, con l’aiuto delle etichette, anche se sono al momento poco comunicative. So che può sembrare laborioso ma questo è l’unico modo. Possiamo però informarci su chi ha già iniziato a produrre in maniera diversa: abiti ecologici, riciclati, di seconda mano, provenienti da filiere equosolidali. Poi dobbiamo intervenire sulla sobrietà, su quello che ci serve davvero: è meglio investire in un capo di qualità che mi dura di più perché è fatto bene, rispettando il lavoratore. Dobbiamo investire in un consumo di qualità, che non vuol dire lusso, perché purtroppo non ci dà nessuna garanzia, e spesso viene prodotto nelle stesse filiere che noi denunciamo. Esistono artigiani che producono capi di qualità che hanno costi più elevati perché mettono in campo diverse di queste scelte: manodopera pagata con un salario giusto, con i contratti di lavoro, senza sfruttare il territorio, usando coloranti naturali e non chimici, ed è quindi giusto che costino di più»
Forse però qualcosa sta cambiando nell’approccio all’acquisto.
«Sì, questa cultura di consumo critico sta iniziando a prendere piede anche nell’immaginario comune. Se prendiamo come esempio i vari mercatini che stanno crescendo in Italia, dal biologico a quello di prodotti artigianali, come l’artigianato tessile, si scopre che sono tutte manifestazioni di successo. Vuol dire che c’è gente che va alla ricerca di questi prodotti. Bisogna continuare a lavorare in questo senso e cominciare a dire la verità: bisogna spendere di più e bisogna spendere meno comprando di meno, quindi dobbiamo solo riequilibrare il nostro portafoglio, analizzando la spesa quotidiana, capendo cosa è utile e cosa invece è superfluo, spostando in maniera politica la nostra spesa: con ogni euro che spendiamo noi finanziamo e premiamo un sistema produttivo piuttosto che un altro, quindi è un qualcosa che ci dà anche molto potere di pressione per un cambiamento. Questo è il concetto alla base di tutte le nostre campagne»
Quello in Bangladesh è stato il più grande disastro della storia nell’industria dell’abbigliamento. Quali erano le condizioni nello stabilimento?
«Condizione disumane. Sono strutture spesso illegali dove mancano i presupposti minimi di sicurezza, con sbarramenti ovunque e una sola uscita di sicurezza. Tutti gli operai si sono accalcati in quell’unica uscita e gli altri sono rimasti intrappolati come topi. Chi è riuscito a scappare dalle fiamme spesso si gettava dalla finestra e moriva così. Una vera forma di schiavitù che, dopo i fatti di Prato di questi giorni, mi fa pensare che in realtà il Bangladesh è qui da noi»
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Come funziona di preciso il meccanismo di subappalto da parte delle grandi industrie tessili internazionali?
«E’ un sistema molto complesso: si crea un network di produzione con tanti intermediari, i cosiddetti buyer, che consegnano il prodotto chiavi in mano alla grande industria, trovando il posto che lo produce al miglior prezzo, spesso in stabilimenti dove lo stipendio è 1/10 del salario dignitoso. Tutto viene portato avanti in un sistema molto fumoso, dove gli appaltatori spesso sub-appaltano a loro volta, in un processo infinito, che fa sicuramente gioco per evitare le responsabilità, fatto per occultare».
Com’è possibile che marchi famosi che fatturano milioni di euro in tutto il mondo possano consentire condizioni lavorative di questo tipo? E’ possibile che non conoscano le reali condizioni di queste ditte alle quali appaltano i loro lavori?
«No, non è possibile, con le denunce e i disastri che sono avvenuti negli ultimi tempi è impossibile che non conoscano il sistema. Possono non sapere la fabbrica precisa dove il prodotto viene materialmente creato, proprio per il sistema di mille intermediari di cui parlavamo prima»
Anche dopo lo scoppio di questo scandalo internazionale ci sono dei marchi che non hanno risarcito le vittime, negando il loro coinvolgimento. Ci sono invece esempi virtuosi, anche italiani?
«Purtroppo sono pochi, pochissimi. Di grandi marchi made in Italy, Gucci ha messo in campo un percorso di tracciabilità, prendendo anche accordi con i sindacati di riferimento. Le aziende che svolgono percorsi limpidi e che lavorano pulito devono uscire allo scoperto».
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