La lunga vita della plastica continua ad essere tale, anche dopo l’introduzione della biodegradabile. Lo smaltimento è insufficiente
Anche in Italia, dall’inizio dell’anno, è arrivata la norma sull’abolizione della plastica monouso nei punti vendita. Gli esercizi commerciali hanno postuto vendere solo le rimanenze presenti nei magazzini, ma è subentrato l’obbligo di acquisto di plastica monouso esclusivamente biodegradabile. Con un costo non indifferente da parte dei consumatori in virtù di una spinta ambientalista e quindi una riduzione del danno ambientale, che necessariamente ricade sui costi sociali. Questi ‘sacrifici‘ sono stati raccolti da una direttiva europea in tema. La prospettiva di ridurre l’impatto ambientale è stata sin dall’inizio parzialmente delusa da studi del CNR che riportavano come la plastica biodegradabile, nel breve periodo, non avesse così tanta distanza di degradazione nell’ambiente da quella convenzionale.
La speranza rimaneva il compostaggio. La plastica biodegradabile, su carta, può essere gettata nel contenitore dell’umido e riciclata. Ma è davvero un’alternativa ecologica alla plastica convenzionale? Risponde Polieco, con un comunicato stampa in cui riporta un’indagine condotta da Greenpeace.
Nel corso dei lavori del Forum internazionale dell’economia dei rifiuti promosso dal consorzio Polieco, sono intervenuti, per Greenpeace, Elisa Murgese, investigations officer currently Italia e Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna inquinamento. Il tema della plastica biodegradabile, o come sarebbe più corretto chiamarla, plastica compostabile, viene affrontato da un punto di vista pratico: gli impianti di smaltimento.
“La maggior parte dei rifiuti organici in Italia finisce in impianti che non sono in grado di trattare efficacemente i materiali usa e getta in plastica compostabile”. Una forma di tradimento verso tutti i consumatori che ogni giorno si caricano l’onere non solo dell’aquisto, ma anche della divisione e corretto conferimento dei rifiuti. La responsabilità sociale dello smaltimento dei rifiuti parte dai cittadini, che rappresentano la prima parte della filiera. Quello che accade in seguito rimane parzialmente ignoto, e da ciò che emerge dall’inchiesta è piuttosto deludente.
“La plastica ‘green’ certificata come compostabile secondo la UNI EN 13432 e conferita nell’umido – continuano Murgese ed Ungherese – invece che degradarsi e divenire compost finisce nella maggior parte dei casi in inceneritori o in discarica. Dati alla mano in Italia il 63% della frazione organica è inviata in impianti (anaerobici) che difficilmente riescono a degradare la plastica compostabile. E il restante? Confluisce in siti di compostaggio dove non è detto che resti il tempo necessario a degradarsi, rappresentando un problema più che un’opportunità”.
Il problema che coinvolge l’Italia, e tutta l’Europa in generale, a parte qualche Paese virtuoso, è che “tutti gli impianti contattati da Greenpeace hanno segnalato problematiche nel trattare i prodotti usa e getta in plastica compostabile, che nella maggior parte dei casi sono separati dall’umido non appena arrivano in impianto”.
E questo rappresenta una grande delusione per i cittadini, che rasenta la beffa. Chiedere un onere a carico del consumatore per poi vanificare la questione in pochi passaggi è poco corretto. Si dovrebbe in prima battuta controllare la destinazione d’uso corretta, e poi avviare la filiera, che dovrebbe funzionare a dovere. Quindi se la domanda rimane: La plastica compostabile è un’alternativa alla convenzionale? La risposta rimane la medesima di tanti altri malfunzionamenti del nostro Paese. Sì, se la procedura avvenisse in modo corretto.
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