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Circa duemila vittime all’anno, molte di queste a causa del mesotelioma pleurico, 34.148 siti ancora da bonificare, con oltre 32 milioni di tonnellate di materiale nocivo sparso su tutto il territorio nazionale. Potrebbero sembrare i numeri di un bollettino di guerra, e in effetti non siamo lontani dalla verità: la battaglia contro l’amianto è silenziosa, presentata sporadicamente sui media e parte di un passato che tutti vogliamo dimenticare. Le cifre, presentate solo a novembre del 2012 da Legambiente, durante la seconda conferenza organizzativa in Senato, non lasciano scampo a fraintendimenti: bisogna fare presto e soprattutto farlo bene. In questo contesto, dove l’emergenza non è più l’accertamento del pericolo ma la rimozione e lo smaltimento, s’inserisce l’idea dei fratelli Antonini, il Pre-Box. In cosa consiste? Un sarcofago di calcestruzzo dove mantenere in sicurezza le lastre d’amianto che si andranno a rimuovere dai tetti. Cosa differenzia questa soluzione da quella tradizionale utilizzata fino a questo momento?
Dobbiamo partire da una domanda fondamentale: nella pratica, come si smaltisce questo materiale nocivo? Le norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto fanno capo alla legge n.257 del 27 Marzo 1992, senza dimenticarci anche del D.M del 6 settembre 1994. Se si sceglie di rimuovere materia friabile, i diversi pezzi devono essere avvolti con due strati: “Il primo contenitore deve essere un sacco di materiale impermeabile (polietilene), di spessore adeguato (almeno 0,15 mm); come secondo contenitore possono essere utilizzati sacchi o fusti rigidi”; per le coperture dei tetti in cemento-amianto invece “devono essere chiusi in imballaggi non deteriorabili o rivestiti con teli di plastica sigillati”.
Ma questi metodi sono sicuri? A detta di Giacomo Antonini, amministratore della GRM srl di Verolanuova, in provincia di Brescia, le misure messe in atto non sono sufficienti: “Lo smaltimento tradizionale usato oggi, se non messo in pratica correttamente, presenta dei pericoli da non sottovalutare: ad esempio, in cima alla lista, c’è la possibile rottura degli involucri e la dispersione nell’aria di particelle tossiche anche nelle falde acquifere provenienti da ogni singolo bancale, visto che la pellicola si può deteriorare – racconta Antonini – Le discariche autorizzate in Italia sono poche e tutto il resto dei rifiuti viene mandato all’estero, come ad esempio in Francia, dove hanno hanno sviluppato tecniche di smaltimento come quella della vetrificazione”. La domanda sorge spontanea: perché non le utilizziamo anche noi? Il problema sembra legato ai costi: “In Italia sarebbe molto dispendioso, perché per metterle in pratica c’è bisogno di molta energia elettrica, e in Francia, com’è noto, la producono loro con le centrali nucleari, noi dovremmo comunque importare corrente e i costi sarebbero molto alti” precisa l’imprenditore.
Nel medio-lungo periodo, il rivestimento impermeabile potrebbe non bastare: alcuni studi hanno accertato la presenza preoccupante di fibre di questo materiale proprio nelle zone delle discariche, che sarebbe imputabile al decadimento naturale degli imballaggi, causato dall’usura del tempo e dalle condizioni di degrado successive alla procedura d’interramento. Il rischio, nel lungo termine, nonostante un perfetto rivestimento, sarebbe proprio quello d’inquinare il sistema idrologico superficiale.
Secondo i fratelli Antonini, il Pre-Box potrebbe essere una soluzione temporanea per questi problemi, aspettando che le nuove tecnologie riescano a trovare metodi efficaci di smaltimento: “Intanto si potrebbe iniziare a non mettere tutto questo materiale sotto terra: uno di questi contenitori che proponiamo può contenere quattro tonnellate di rifiuti, ovvero 300 mq di lastre ondulate, e può essere stoccato nei depositi in sicurezza, visto che il sigillo garantisce una durabilità di 100 anni. Ogni Pre-Box viene numerato progressivamente per la rintracciabilità in futuro del materiale” dichiara Antonini. Le schede tecniche del prodotto seguono le linee guida internazionali di conformità dell’Astm Internationaled, dell’Epa, Dell’Oms, grazie ad analisi eseguite con la collaborazione dell’Università di Bologna, mentre la qualità del processo è certificata dall’Università di Bergamo.
Si potrebbe quindi salvaguardare l’ambiente e far partire da zero nuove attività imprenditoriali. Tutto questo implicherebbe infatti la nascita di nuove aziende e l’impiego di forza lavoro. Giacomo Antonini ha fatto i suoi calcoli: “Per coprire le tonnellate di materiale ancora in circolazione sarebbero necessari 8 milioni di Pre-Box e un’azienda di medie dimensioni potrebbe produrne circa 20 al giorno, con l’ausilio di 8-10 operai”. Dopo aver descritto questo quadro, le istituzioni che opinione hanno dato in merito? “Ho partecipato a un’audizione in Parlamento a metà novembre dove ho presentato il progetto e ho trovato pareri positivi ma poche risposte pratiche – commenta Antonini – Tra l’altro in Francia hanno già fatto un’offerta per avere il prodotto ma io mi sto opponendo per tenerlo in Italia e fare qualcosa di concreto per questa situazione”. L’idea non si ferma qui: si parla addirittura di creare, sopra le aree che contengono i Pre-Box, degli impianti fotovoltaici, per sfruttare un’area che altrimenti rimarrebbe inutilizzata. L’imprenditore conclude con un po’ di speranza: “Il brevetto è stato accettato nel settembre 2011 e a breve dovrebbe arrivare il codice, speriamo di riuscire a smuovere la situazione per la salvaguardia del nostro ambiente e della nostra salute”.
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