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Sperimentazione animale? C'è chi dice no. Intervista a Massimo Tettamanti

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È uno degli argomenti più controversi all’interno della comunità scientifica e soggetto di accese discussioni tra favorevoli e contrari. Stiamo parlando della sperimentazione animale. È vero che essere a favore o contro vuol dire abbracciare un mondo, una cultura e una filosofia di vita prima che una scelta pratica? Secondo il Dottor Massimo Tettamanti è tutto molto più pratico di quello che possa sembrare. Laureato in Chimica e Dottorato di Ricerca in Scienze Chimiche presso l’Università degli Studi di Milano, è anche Consigliere scientifico dell’associazione Atra. Abbiamo cercato di capire meglio l’argomento, sviscerando anche i punti cruciali della controparte a favore della sperimentazione animale.
Perché la sperimentazione animale non può essere precisa e valida sugli esseri umani? Spesso si sente dire che viene utilizzata per il Dna in comune con alcune specie (si hanno altissime percentuali con i primati antropomorfi), ma questo vuol dire avere davvero reazioni identiche?
Assolutamente no. Qui si tratta proprio di andare a studiare storia della medicina. Prima si partiva da semplici somiglianze metaboliche, ad esempio la banalissima “tutti i mammiferi hanno un cuore” ma per fortuna tutto ciò è molto diverso da quello che abbiamo a disposizione negli anni 2000. Siamo arrivati a una medicina sempre più specializzata, che prevede ad esempio differenti dosaggi tra uomini e donne e tra diverse etnie, senza contare le incredibili potenzialità delle nanotecnologie. Il grandissimo problema, e il perno di tutto, è che abbiamo purtroppo una legge che impone la validità di un test solo se dà gli stessi risultati della sperimentazione animale. Avere il modello animale come confronto è follia pura, quando potrei avere invece un riscontro diretto su dei tessuti umani e non su quelli di un ratto.
Perché viene ancora condotta? Ci sono prove che la ricerca su animali sia utile all’uomo?
La risposta è molto più banale di quello che può sembrare. Viene ancora condotta perché “da 150 anni funziona così”. È molto più difficile scardinare un intero sistema di cultura, di metodologie insegnate all’università, piuttosto che sviluppare un nuovo sapere, anche se è già lì, pronto per l’uso. Noi, come I-Care, proponiamo dei corsi avanzati per mostrare altre metodologie ma spesso non riusciamo a trovare persone che abbiano le conoscenze di base. Abbiamo proposto dei corsi di questo tipo ovunque e l’Università di Genova ci ha aperto le porte per un corso il 26 e 27 febbraio. Già in un articolo del 2004 pubblicato sul British Medical Journal vengono messe in dubbio molte delle metodologie messe in campo nella sperimentazione animale.
Quali sono i metodi alternativi che proponete?
Parliamo di sperimentazione sul materiale umano, che possiamo dividere in due categorie. La prima è quella chirurgica, per la quale si possono usare cadaveri, o se è necessario lavorare sull’organismo vivo, come ad esempio per testare un peacemaker, su simulatori metabolici che riproducono interamente degli organi umani in tre dimensioni, anche connessi tra loro. Il problema non è infatti la mancanza di questi metodi alternativi ma la mancanza di finanziamenti a questo tipo di ricerca diversa da quella condotta fino adesso.
Secondo lei 200 anni di storia di sperimentazione animale sono da cestinare e ricominciare da capo o c’è qualcosa che si può salvare?
Dipende dal punto di vista. Se si studia la storia è normale che si debba andare avanti, in nome del progresso. È incredibile come tutta la ricerca sia andata avanti anni luce e una delle più importanti, ovvero quella che riguarda la cura della salute dell’uomo, sia ferma a 150 anni fa. Come s’inventò l’aereo e oggi si è arrivati al razzo supersonico, allo stesso modo nella ricerca per la salute umana non si può andare avanti con questo tipo di metodi, sarebbe come dire “sono belli gli smartphone, ma noi siamo abituati ad usare il telegrafo”.
La situazione in Italia è tanto diversa dall’estero?
Se parliamo di paesi come Regno Unito, Olanda, Stati Uniti e Germania sì, almeno lì è diventata palese la volontà di trovare tecnologie nuove per scoprire novità. È notizia di poco tempo fa: la Germania ha finanziato un progetto da 20 milioni di euro per un simulatore di fegato umano, mentre negli Stati Uniti stanno cercando di mappare, attraverso un programma che ha previsto un finanziamento iniziale di 6 milioni di dollari, le reazioni umane alle malattie. In questo senso il nostro sistema è molto indietro. L’unico passo in avanti è stato fatto in ambito cosmetico, dove una rivolta partita dal basso, ovvero la richiesta di avere cosmetici non testati, ha spinto a un nuovo tipo di ricerca. Paradossalmente sei più sicuro nell’usare uno shampoo sotto la doccia rispetto a ingerire un additivo alimentare.
Usare animali è più o meno costoso per la ricerca?
Dipende. Se si parla della singola cultura cellulare, la sperimentazione sull’animale costa molto di più, se parliamo di simulatori metabolici e di avanzate tecnologie come quelli in tre dimensioni sono ovviamente più costosi dell’utilizzo di ratti.
Avete degli esempi lampanti di casi in cui farmaci testati su animali sono stati ritenuti poi dannosi e nocivi per gli uomini?
Sono tantissimi, basta leggere qualsiasi bugiardino per rendersi conto della quantità di potenziali effetti collaterali, o collegarsi al sito novivisection.org. La stessa comunità scientifica è a conoscenza dei limiti della sperimentazione animale, come dimostra il dossier pubblicato su Repubblica, dove dimostro, dall’analisi dei documenti dei farmaci della GlaxoSmithKlane, come gli stessi ricercatori conoscano bene la non scientificità della vivisezione nel momento in cui devono estrapolare all’uomo i dati ottenuti su animali. Purtroppo per la stragrande maggioranza delle persone vale sempre il concetto “meglio la vita di un topo che quella di un bambino” quando invece finanziare metodi alternativi vorrebbe dire salvare con molte più probabilità il bambino risparmiando anche le torture sugli animali.

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